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L’origine delle fasce

Le speranze avvolte in fasce

L’elemento che caratterizza la processione di lu Signuri di li fasci è dato da circa 180/200 fasce di lino bianco che la sera del venerdì santo vengono annodate in un cerchio metallico collocato ai piedi di un Crocifisso posto alla sommità di una croce, la cui altezza complessiva è di circa 9 mt.

Le fasce vengono realizzate dai fedeli che hanno espresso un voto nei confronti del Signore Gesù Cristo. Si tratta, molto spesso, del ringraziamento per l’avvenuta guarigione da una malattia, ma anche, in tempi più recenti, la grazia per la nascita di un figlio. Quest’ultima motivazione ci porta alle origini della processione stessa come in seguito si dirà.

Le fasce sono annodate a metà della loro lunghezza complessiva, producendo in tal modo il loro raddoppiamento. Infatti anche se la fascia appartiene ad un unico proprietario, tuttavia sono necessarie quasi sempre due persone per tenere in mano ciascuno un capo della stessa fascia durante la processione.

Le più antiche si tramandano da una generazione all’altra, rappresentando un legame, oltre che con la secolare tradizione, anche con l’originario proprietario, spesso il nonno o anche il bisnonno o un parente che l’ha lasciata “in eredità”. Si tratta quindi di un bene prezioso!

E’ opportuno specificare com’erano e come sono realizzate le fasce per comprenderne l’origine e la funzione e il modo in cui la processione ha assunto la caratteristica attuale.

Oggi la fascia viene allestita unendo, nel punto in cui viene annodata al cerchio metallico, due strisce di lino di uguale lunghezza. Il punto di unione delle due strisce di lino serve a determinare il “centro” della fascia, cioè la parte in cui la stessa viene legata al cerchio metallico, consentendone in tal modo lo sdoppiamento.

Tutto ciò non è un caso, ma il frutto di una tradizione modificatasi nel tempo, che ci vede oggi ripetere alcuni gesti senza comprenderne la motivazione originaria e sulla quale successivamente si cercherà di formulare qualche ipotesi.

Le fasce antiche hanno una lunghezza originaria di 20-23 metri, mentre quelle attuali misurano 33 metri. Le prime molto spesso sono state “allungate” nel corso degli anni con l’aggiunta di nuove strisce di lino o più spesso di altra stoffa, quasi sempre riconoscibile dalla parte originaria.

Il motivo di tale aggiunta potrebbe essere stato determinato dal fatto che prima del 1904 ogni fascia era costituita da una sola striscia di lino annodata direttamente alla croce e che dopo questa data sia stata allungata poiché era cambiato il sistema di legatura. Non si spiega altrimenti il motivo per cui le fasce più antiche sono state tutte allungate nel corso del tempo.

Si può pensare che all’inizio della processione la fascia era costituita dalla sola striscia di lino necessaria a unire la croce, a cui la fascia era direttamente annodata, con il proprietario posto ai piedi della croce stessa.

La fascia, quindi, era lunga tanto quanto serviva ad essere tenuta da un solo fedele.

La stampa del 1861, tra l’altro, evidenzia perfettamente che le fasce, nella parte tenuta in mano dal fedele, non erano aggomitolate come avviene oggi, ma arrivavano ad altezza di chi le teneva.

Un’ulteriore dimostrazione che le fasce antiche erano corte ed erano state realizzate per un altra funzione.

L’attuale sistema di legatura delle fasce al cerchio metallico – formato da due semicerchi uniti da due viti – consente, una volta divise le due parti del cerchio, che esse vengano liberate d’un solo colpo, evitando la lunga attesa che obbligava i proprietari, dopo la calata della croce, ad attendere a lungo lo scioglimento delle singole fasce.

L’uso di realizzare fasce più lunghe è solo una tradizione degli ultimi 50 anni.

Negli anni successivi al secondo conflitto mondiale molte fasce sono state realizzate in tessuto diverso dal lino, e solo negli ultimi trent’anni è stata rivalutata l’antica tradizione di realizzarle nell’antico tessuto, come è avvenuto all’origine della processione.

La domanda che spesso ci sentiamo rivolgere da chi viene da fuori per assistere al rito è la seguente: “Che cosa rappresentano le fasce e qual’è la loro funzione?” Ed inoltre: “Perché vengono legate ai piedi del Crocifisso?”

La risposta più naturale che abbiamo dato è che esse rappresentano un voto, cioè una promessa di fede di un singolo fedele, e che inizialmente furono realizzate con la funzione di equilibrio del fercolo.

In realtà uno studio più attento sull’origine delle fasce ci porta a ritenere che la funzione di equilibrio del fercolo potrebbe essere solo una conseguenza dell’uso stesso di queste strisce di lino e non era probabilmente lo scopo principale della loro realizzazione.

Infatti la funzione di equilibrio non poteva essere svolta dalle poche fasce rappresentate nella stampa del 1861!

Trattandosi di una processione religiosa dobbiamo innanzi tutto provare a capire se ci siano state delle specifiche motivazioni di carattere spirituale che abbiamo indotto i fedeli di Pietraperzia o la Confraternita a concepire un cerimonia così originale.

La fonte primaria di conoscenza per ogni credente è il Vangelo. E’ dalla lettura dei Vangeli che forse si può trovare qualche spunto per ricercare l’origine della nostra tradizione.

L’uso di fasce e di bende, infatti, potrebbe essere un preciso richiamo a quanto riportato dagli Evangelisti, soprattutto Luca e Giovanni.

Scrive l’Evangelista Luca: “Mentre si trovavano a Betlemme si compirono per lei i giorni del parto. Diede alla luce il suo figlio primogenito, lo avvolse in fasce e lo depose in una mangiatoia perché non c’era posto per loro altrove” (Lc. 2,7).

“Lo avvolse in fasce”: un gesto tanto abituale, ma dal significato profondo. Il Figlio di Dio, divenuto figlio di Maria, assume la condizione umana, cioè quella comune a noi tutti. Una condizione destinata a concludersi con la morte.

L’Evangelista Giovanni, invece, ci descrive quanto avvenuto al momento dell’arrivo degli apostoli al sepolcro: “Chinatosi, vide le bende che giacevano distese, tuttavia non entrò: Arrivò poi anche Simon Pietro che lo seguiva ed entrò nel sepolcro. Vide le bende che giacevano distese e il sudario che era sopra il capo…” (Gv. 19,35).

Non sappiamo se al momento di legare la prima fascia ai piedi del nostro Crocifisso i fedeli di Pietraperzia abbiamo voluto esprimere un preciso richiamo alla narrazione evangelica, ma l’uso di avvolgere in fasce i bambini, riportato dai Vangeli, richiama alla memoria la tradizione di avvolgere in fasce per i primi 40 giorni, anche i bambini nati nella nostra comunità.

Va tenuto presente che anche in altri comuni, durante la processione del venerdì santo, delle bende bianche o delle fasce sono collocate sulle braccia della croce come avviene ad esempio a Piazza Armerina, forse, in quest’ultimo caso, a richiamare alla memoria dei fedeli le bende ritrovate nel sepolcro.

Per dare una spiegazione di carattere storico sulla nascita e sulla funzione della fascia nella nostra processione è necessario partire proprio dal significato del termine nella lingua siciliana.

Nel 1786 l’abate Michele Pasqualino nel “Vocabolario siciliano etimologico italiano e latino” dà questa definizione del termine: “fascia, striscia di panno lino lunga, e stretta, la quale avvolta intorno a chicchessia, lega, e strigne leggiermente”. Prosegue ancora lo studioso: “fasci nel numero di più diconsi tutti panni lini, che involgono e stringono i bambini prima di vestirsi”.

Vincenzo Mortillaro che pubblica il suo vocabolario nel 1838 dà la stessa definizione di fascia: ”…striscia di pannolino, o di altro lunga, e stretta, che avvolta intorno a checchessia, lega e stringe. Dicesi anche di tutte le cose, che circondano, e difendono le altre”.

Già nel ‘700 e nell’800, quindi, per fascia si intendeva una striscia di panno di lino per avvolgere. E fasci, al plurale, i panni che “…stringono i bambini prima di vestirsi”.

La consuetudine di fasciare i neonati, tanto diffusa e radicata, si perpetua nel tempo giungendo fino a noi e documentata – intorno alla fine degli anni trenta del secolo XX – dal Pitrè quando segnala che “Più di due terzi della Sicilia serbano l’uso di mettere prigioniero tra le tenaci fasce il neonato e di ficcare in una delle ripiegature della fasciatura lo Abbizzè” -l’a,b,c- “o Buzzeu o Santa Cruci”, cioè un libricino di poche pagine con immagini, segni e preghiere, la cui funzione è quella di avere “molte virtù e preserva, chi lo ha addosso, di qualche maleficio possibile”. (cfr. Usi e costumi, credenze e pregiudizi ecc. di G. Pitrè volume II, pag. 149)

Anche a Pietraperzia la tradizione di avvolgere i bambini in fasce per i primi mesi di vita è rimasta in uso fino agli anni ’60 del secolo XX. E’ altresì testimoniato da persone tuttora viventi che nel territorio di Pietraperzia, almeno fino alla fine del XIX secolo, il lino veniva coltivato, lavorato e infine tessuto. Diverse sono le testimonianze in tal senso che risultano interessanti sia per quanto riguarda la produzione del lino sia per l’utilizzo che se ne faceva.

La sig.ra Carmela Marotta vedova Anzallo (n.23.12.1927) racconta che il nonno del marito si trovava nei pressi del fiume Salso dove aveva un appezzamento di terreno nel quale coltivava il lino. Mentre il sig. Anzallo Calogero di Filippo si trovava in quel luogo, giunse improvvisa una forte piena tale da provocare apprensione nello stesso e nei fratelli presenti, da far temere per la loro vita.

Lo stesso Anzallo fece voto di realizzare una fascia di lino se i presenti al fiume si fossero salvati. Allo scampato pericolo seguì la realizzazione di una fascia. La storia narrata dalla sig.ra Anzallo risale all’anno 1890 circa.

Il sig. Rosario Caffo (n.28.02.1933) racconta che il lino utilizzato per la realizzazione della fascia della sua famiglia fu coltivato in contrada Vallone dell’Oro, in territorio di Pietraperzia. La fascia, il cui primo proprietario fu il sig. Damiano Satariano, porta la data del 1888 ed è la più antica tra quelle in cui vi è ricamato l’anno di realizzazione.

A Pietraperzia, quindi, non solo si coltivava il lino ma si realizzavano anche le fasce che venivano utilizzate per avvolgere i bambini subito dopo la nascita.

Secondo la testimonianza di persone tuttora viventi, al bambino veniva prima messo il panno, poi il “fascione” e solo in ultimo la fascia vera e propria.

Il fascione era una stoffa quadrata delle dimensioni di circa 80 cm. x 80 cm. posto sotto la fascia.

Negli anni ’30 del secolo scorso le fasce venivano acquistate già pronte e misurano circa cm. 225 e larghe circa 20 cm.

Si può formulare qualche ipotesi, al momento, però, non suffragata da documenti storici precisi.

Annessa alla sacrestia della chiesa di Maria Ss. del Soccorso esisteva la ruota de proietti. Sia l’una che l’altra, fino ai primi anni della seconda metà dell’ottocento, facevano parte del complesso conventuale dei Padri del terz’ordine di s. Francesco.

Quest’ultimi, a seguito della donazione avvenuta nel 1705 da parte della Confraternita, erano divenuti proprietari della chiesa, come risulta anche dal documento del 1828 in cui si fa espresso riferimento alla processione del venerdì santo rilevando che la stessa “sortendo dalla chiesa de’ Padri del terz’ordine gira per le strade di quella Comune…”.

L’esistenza della ruota dei proietti è documentata a Pietraperzia almeno dal 1756 e il suo funzionamento durò fino agli anni ’30 del secolo XX.

In uno studio del 1978 dal titolo “Pietraperzia: un paese vecchio”, pubblicato nella rivista Archivio Storico per la Sicilia Orientale, la studiosa Silvana Raffaele afferma che per la prima volta il termine “in rota projectorum” si trova in un atto di battesimo del marzo 1756, custodito presso la Chiesa Madre.

L’istituto della ruota fu reso obbligatorio, in Sicilia, dal viceré La Viefuille nel 1751, ma probabilmente esisteva già in alcune città siciliane e fu abolito ufficialmente solo nel 1923 con un regolamento approvato dal governo Mussolini.

Dai documenti finora consultati non è stato possibile verificare se la “ruota dei proietti” fosse gestita dai terziari francescani che abitavano il convento oppure dalla stessa Confraternita che nella chiesa annessa aveva la propria sede.

Dopo l’unità d’Italia, a seguito della legge n.3036 del 7 luglio 1866, furono soppressi gli ordini religiosi. I conventi furono requisisti da parte dello Stato e assegnati in parte ai comuni, come avvenne per il convento dei Padri del Terz’Ordine di S. Francesco, conosciuto più comunemente come convento del Carmine.

Va precisato, per inciso, che i Carmelitani non vi abitarono mai, come ha documentato il sac. Filippo Marotta nella presentazione al volume “Pietraperzia dalle origini al 1776” alle pagg. 59 e segg.

E’ certo comunque che dopo la partenza dei terziari francescani da Pietraperzia, la ruota fu affidata ad una dipendente laica pagata dal Comune.

Già nel 1866, in un elenco ritrovato tra i documenti dell’ Archivio della Congregazione di Carità – ora donati alla Parrocchia S. Maria Maggiore e custoditi nell’archivio della Confraternita Maria SS. del Soccorso – si rileva che numerosi erano i bambini abbandonati -“i projetti”- affidati alla cura della “rutara”, annessa alla sacrestia della chiesa di Maria Ss. del Soccorso o del Carmine. Nell’elenco del 1866 redatto dalla stessa Congregazione ne risultano registrati 66.

Un altro elenco del 1868, firmato da tutti i componenti la Commissione amministratrice della Congregazione di Carità, conferma che già a quell’epoca la cura dei proietti era gestita da questa Istituzione pubblica istituita in Italia con la legge del 3 agosto 1862 n.753 allo scopo di amministrare i beni destinati a beneficio dei poveri e le opere pie la cui gestione fosse stata affidata dal consiglio comunale. Tra le opere pie amministrate dalla Congregazione di Carità vi era la Confraternita del Soccorso.

A questo punto è opportuno chiarire quale era il compito e come funzionava la “ruota dei proietti”. Si trattava di un meccanismo abbastanza semplice ideato e costruito per abbandonare un neonato!

La “rota” era costituita da un cilindro in legno che collegava l’esterno con l’interno dell’edificio. Il cilindro era fissato, come una finestra, dentro un muro e ruotava con un perno in modo tale da portare il neonato dall’altra parte del muro stesso. Il suono di una campanella precedeva l’abbandono del proietto dentro la ruota.

L’abbandono del bambino era determinato, quasi sempre, da ragioni economiche ma anche da motivazioni di carattere sociale. Si trattava anche del frutto di relazioni extraconiugali.

Dal momento in cui l’onere di provvedere ai bambini abbandonati fu affidato alla Congregazione locale, quest’ultima contribuì con una somma di lire 4 e centesimi 25 mensili a titolo di alimenti del proietto, mentre solo per il primo mese di vita veniva erogato un contributo di 1 lira e 70 centesimi per l’acquisto di pannolini e “fasciatura”.

Pannolini e fasciatura che erano evidentemente i “panni lini” e le fasce in cui venivano avvolti i bambini dopo la nascita.

Formulo una prima ipotesi.

La madre del bambino consegnava il proietto coperto da qualche modesto panno. Il primo compito della ruotara, subito dopo l’accoglienza, era quello di “’nfasciarlo”, utilizzando proprio una fascia cioè quella “striscia di panno lino lunga, e stretta, la quale avvolta intorno a chicchessia, lega, e strigne leggiermente” secondo il vocabolario del Pasqualino. Mi piace pensare che su ogni fascia che avvolgeva un bambino venissero ricamate le iniziali del nome e del cognome attribuito al proietto. Tradizione, questa, inconsapevolmente tramandata nel tempo. Infatti ancora oggi, senza che ve ne sia una precisa esigenza, su ogni fascia vengono ricamate le iniziati del primo proprietario.

L’ipotesi più probabile è che venissero utilizzate fasce di lino già realizzate per essere destinate ai proietti. Queste erano già state offerte per voto dai fedeli per essere “appese” al Crocifisso durante la processione e consegnate successivamente alla ruotara, forse dalla Confraternita che curava la processione con il Crocifisso il giorno del venerdì santo. In questo modo, probabilmente, si chiedeva la protezione per i fanciulli abbandonati. Non stupisce, perciò, se uno dei voti attualmente più ricorrente è quello di realizzare la fascia per la nascita di un bambino!

Riguardo al fatto che le fasce in un primo tempo potessero essere solo “appese”, sovviene l’espressione usata dai pietrini ancora oggi per definire il momento della legatura della fascia ai piedi del Crocifisso: “appenniri la fascia”.

Appendere, infatti, significa letteralmente “fissare un oggetto a un elemento di sostegno, appoggiandolo, legandolo o altrimenti fermandolo ad esso, in modo che resti rialzato da terra o da altro piano orizzontale” (Enciclopedia Treccani) e non è detto che all’inizio le fasce fossero necessariamente sostenute da qualcuno, ma potevano essere lasciate libere, cioè appese alla croce.

Il termine appendere, infatti, ha il significato di qualcosa che pende senza che all’estremità venga tenuto da qualcuno o da qualcosa.

Così doveva essere all’inizio per le fasce le quali erano “appese” ai piedi del Ss. Crocifisso e solo in un secondo momento furono tenute da proprietari anche con la funzione, importante ma non esclusiva, di equilibrio della croce.

L’ipotesi più probabile, in definitiva, è che le fasce venissero realizzate “per voto” per destinarle ai proietti, dopo che erano state legate per devozione ai piedi del nostro Crocifisso nella loro lunghezza complessiva e successivamente tagliate in più parti per essere utilizzate per “fasciare” i proietti.

Al termine della processione da ogni fascia – lunga originariamente 20/23 metri – si potevano ricavare circa 10 piccole fasce ciascuna di 2,5/3 metri. Questa doveva essere la lunghezza necessaria per avvolgere un bambino.

Il voto del fedele veniva ripetuto ogni anno per il tempo in cui si era obbligato verso il Signore Gesù Cristo e quindi ogni anno il fedele realizzava una nuova fascia.

Una volta consunte naturalmente le fasce erano distrutte, motivo per cui di quelle più antiche non è rimasta nessuna traccia.

Ciò spiegherebbe l’esiguo numero di fasce ritratte nella stampa del 1861, visto che si trattava solo delle fasce di quell’anno e spiegherebbe inoltre il motivo per cui le fasce che attualmente si conservano risalgono solo ad un periodo successivo, cioè dopo il 1880, quando già da circa quindici anni le fasce per i proietti venivano fornite dalla Congregazione di Carità.

Si potrebbe anche ipotizzare che fasce della lunghezza di 2-3 metri venissero in un primo tempo utilizzate per avvolgere il proietto e, una volta ultimato il compito originario, unite tra loro per formare una fascia più lunga, da legare ai piedi del Crocifisso, durante la processione, per chiederne grazie e protezione.

In entrambe le ipotesi solo in un secondo momento, vista la funzione di equilibrio che riuscivano a svolgere, furono utilizzate per mantenere in equilibrio la croce o semplicemente per facilitarne l’alzata.

La domanda che ne segue, allora, è la seguente: “Perché dopo il 1880 le fasce rimasero di proprietà del fedele o della famiglia che l’aveva realizzata?”

Anche in questo caso formulo un’ipotesi.

Dopo che le fasce erano state “appese” ai piedi del Crocifisso, le preziose strisce di lino venivano lasciate alla Confraternita la quale provvedeva a consegnarle alla ruotara, probabilmente in cambio di denaro.

Dopo il 1862 – anno di istituzione delle congregazioni di carità in Italia – fu la Congregazione di Carità locale a fornire la fascia e il fascione direttamente alla ruotara. Da quel momento i fedeli che avevano espresso il voto di realizzare annualmente una fascia per i proietti, non la lasciarono più alla confraternita, ma la riportarono a casa per essere nuovamente legata ai piedi del Crocifisso negli anni successivi.

La Confraternita che dalla vendita delle fasce alla ruotara aveva, in precedenza, ricavato le somme necessarie alla organizzazione della processione, si limitò solamente a chiedere annualmente ai fedeli un contributo in denaro, forse equivalente al costo per la realizzazione di una nuova fascia.

Ancora oggi ai fedeli che si recano al Carmine per “appenniri la fascia” viene richiesto da parte della Confraternita un contributo libero, la cui origine e motivazione potrebbero derivare proprio da quanto detto in precedenza.

Una lunga causa, iniziata nel 1890 e conclusasi nel 1913, contrappose la nostra Confraternita, amministrata per la parte economica dalla Congregazione di Carità, al Demanio dello Stato Italiano.

La Congregazione di Carità era subentrata a partire dal 1862 nei rapporti patrimoniali delle Confraternite di Pietraperzia e particolarmente di quella intitolata a Maria Ss. del Soccorso, titolare di una rendita che le derivava da un lascito della principessa Giulia Moncada del 1584 con il testamento pubblicato dal notaio Giacomo Galasso da Palermo il 16 ottobre 1587.

In conseguenza di questa lite i rapporti tra la Confraternita e la Congregazione di Carità – obbligata a fornire il fascione che veniva utilizzato per i proietti – si deteriorarono e potrebbe essere questo uno dei motivi per cui la Confraternita anziché donare la fascia alla “rutara” chiese ai fedeli di riportarsi a casa la fascia e di offrire in cambio un’offerta in danaro, mentre rimase a carico della Congregazione l’onere di provvedere alla fascia per i proietti.

In una registrazione del 1889, la prima in cui si fa cenno alle fasce, l’ammontare di tale contributo offerto dai proprietari di fasce fu pari a L. 1,50. Considerando che il contributo doveva essere di pochi centesimi ci fa supporre che quell’anno le fasce attaccate non dovevano essere più di un quindicina. Alcune di queste, come già detto in precedenza, si conservano tuttora, mentre di altre si è persa memoria e di altre ancora ritengo si trovino a Limito, visto che in quella cittadina sono state portate alcune delle fasce realizzate prima del 1967 a Pietraperzia.

In un appunto, ritrovato tra i documenti della Congregazione di Carità, datato 28 agosto 1890, il presidente della stessa ordinava al segretario: “date alla ruotara una fascia, quattro pannolini, e due coppolini”.

Questa interessante annotazione dimostra che a quella data era già la Congregazione a fornire la “fascia” per i proietti, mentre le fasce legate ai piedi del Crocifisso venivano già riportate in casa dai rispettivi proprietari.

Il recente ritrovamento tra le carte del defunto parroco sac. Michele Carà (20.04.1870 – 09.06.1946) di alcuni documenti e di un registro utilizzato come brogliaccio di appunti appartenenti alla Confraternita Maria SS. del Soccorso ci conforta in tale ipotesi. I documenti sono stati consegnati alla nostra Confraternita nel 2013.

Il registro, verosimilmente utilizzato come brogliaccio già a partire dagli ultimi anni del secolo XIX, riporta quasi tutti i proprietari di fasce che furono annotati fino al 1914.

Nel suddetto registro tra l’altro sono annotate le offerte di una lira per ognuna delle tre fasce nuove realizzate per la processione del 2 aprile 1904, il che documenta, probabilmente, che per le fasce di nuova realizzazione il contributo richiesto era maggiore rispetto alle fasce già esistenti.

L’ultima data riportata nel registro-brogliaccio è quella del 10 aprile 1914 quando vengono annotate le fasce dei sigg. Bevilacqua Calogero fu Sebastiano, Salvaggio Giuseppe fu Giovanni e Pinnadauria Salvatore fu Calogero, realizzate in quell’anno e tuttora esistenti.

Vi sono registrati una settantina di nominativi di proprietari di fasce, alcune delle quali ancora esistenti, come è stato possibile documentare nel censimento delle fasce del 1995.

Nello stesso registro tale elenco fu poi trascritto in maniera più ordinata, riportando esattamente 71 fasce. Utilizzato fino al 1914, il brogliaccio fu sostituito da altro registro alfabetico in cui furono riportati i nominativi dei proprietari delle fasce esistenti a quell’epoca e quelle che man mano sono state realizzate fino al 1975. Nell’inventario della confraternita redatto il 10 maggio 1914 viene già riportato il registro delle fasce.

Questo dimostra che fino al 1915 le fasce esistenti a Pietraperzia erano circa un’ottantina.

Il primo nominativo riportato nel brogliaccio e poi nel registro alfabetico è quello di Pietro Cacciato (1851 – 1933).

Attualmente la fascia di Pietro Cacciato è in possesso del confrate Filippo Falzone (n.03.01.1939) che ha affermato che la stessa è stata realizzata nel 1885, cosa verosimile alla luce di quanto racconta un’altra pronipote del Cacciato, la sig.ra Alù Natala.

Ritengo utile raccontare la storia di questa fascia poiché conoscendo l’esatta data di nascita del primo proprietario e l’anno di presumibile realizzazione ci aiuta a capire quando in realtà le fasce legate alla croce furono riportate a casa dopo la processione.

Il Cacciato era militare ed ebbe un problema alla vista. Fece promessa di realizzare la fascia se il Signore Gesù Cristo l’avesse guarito dalla malattia, cosa che si verificò realmente, ed al ritorno dal servizio militare, verosimilmente in un periodo intercorrente tra il 1873 e il 1880, la realizzò.

Tale data si ricava tenendo presente che il Cacciato era nato nel 1851. Se teniamo presente che il servizio di leva obbligatoria veniva svolto dopo la maggiore età, è facile supporre che la fascia sia stata realizzata negli anni ’70 del secolo XIX. La misura originaria di questa fascia è di circa 23 metri.

Le date sopra riportate sono utili a dimostrare che verosimilmente prima di allora non esisteva nessun registro o documento in cui la Confraternita annotava i proprietari di fasce, sia perché erano relativamente poche, sia perché non appartenevano ai fedeli. Quest’ultimi si limitavano semplicemente a realizzare la fascia, legarla al Crocifisso e successivamente lasciarla alla Confraternita la quale provvedeva a consegnarla o venderla alla ruotara.

Solo dal 1889, infatti, troviamo offerte per le fasce nei registri della Confraternita. Anche nei documenti riportati alla luce presso gli Archivi di Stato di Enna e Caltanisetta, che riguardano i conti della Confraternita, nessun accenno si trova riguardo alle fasce.

Solo a partire dal 1880/85 le fasce vennero riportate a casa dai rispettivi fedeli dopo la processione e successivamente legate alla croce negli anni successivi e da qui la necessità per la Confraternita di registrarne i proprietari.

Le poche fasce mostrate dalla stampa di Cosimo Adamo sono quelle effettivamente realizzate annualmente, che successivamente venivano tagliate per l’uso dei proietti.

Da questo momento la processione con il Calvario – la croce – con 6/10 fasce legate diviene la processione che si trasformerà ne lu Signuri di li fasci. E’ solo un’ipotesi, ma è certo che prima degli anni ’80 del secolo XIX le fasce non erano di proprietà privata e non c’è traccia di ciò nei documenti della Confraternita.

Prima del 1861 il Calvario veniva portato in processione con le fasce ma di queste non è rimasta nessuna traccia perché dopo la cerimonia religiosa venivano utilizzate per lo scopo di cui si è detto. Se si fossero conservate come quelle realizzate nella seconda metà dell’800, qualcuna di esse sarebbe giunta fino a noi.

Infine potrebbe anche darsi che dopo una certa data il lino non venisse più coltivato a Pietraperzia o che il costo per la loro realizzazione fosse aumentato. Era quindi più difficile realizzare fasce nuove.

Per questo motivo le fasce realizzate annualmente venivano riportate a casa dai proprietari aggiungendosi a quelle preesistenti.

Sono solo delle ipotesi, anche se suffragate da poche documenti, ma fino a quando non saranno portati alla luce nuovi elementi, ci sembra che la tradizione delle fasce a Pietraperzia possa senz’altro essere collegata all’uso di quest’ultime per i bambini abbandonati. E questo rende la tradizione ancora più significativa poiché legata anche all’uso evangelico della fascia al momento della nascita di Nostro Signore Gesù Cristo.

Testo di Giuseppe Maddalena